Sukkot è la festa agricola dell'autunno. Nella Torah, Sukkot è chiamata Hag Haassif
(festa del raccolto – Esodo 23:16, 34:22). All’epoca biblica la sua importanza
era tale da essere chiamata Hehag (la festa) per antonomasia (1 Re 23,
42). La festa e’ il ricordo di un importante evento storico, il cammino degli
ebrei nel deserto verso la terra di Israele. La Torah identifica la Sukkà
(capanna) con le dimore temporanee degli israeliti durante questo
viaggio nel deserto (Levitico 23, 42) da cui il nome di Sukkot: Hag
haSukkot (letteralmente: festa delle capanne).
Piu’ delle altre feste di
pellegrinaggio, Sukkot ha conservato un carattere agricolo ed e’
chiamata anche Hag Haassif (festa del raccolto) o Zeman simhatenu (momento
della nostra gioia). L’attenzione posta sul raccolto e l’abbondanza portano un
cambiamento radicale e benvenuto dopo l’austerita’ delle solenni feste di Rosh
Ha-Shanah e di Yom Kippur. Tutte le feste di pellegrinaggio sono
dei momenti di gioia, ma l’atmosfera di questa festa e’ particolarmente lieta.
La gioia è un elemento essenziale legato a Sukkot, ma anche nel
momento della gioia, la struttura temporanea e fragile della Sukkà, il
precetto più caratteristico della festa, ci ricorda la fragilita’ della vita.
Tra il tetto
della Sukkà e il cielo non deve esserci alcuna interruzione. Il tetto
deve essere fatto di materiale vegetale staccato da terra (rami, foglie,
cannucciati per la copertura dei tetti, ecc.). Si deve poter intravedere il
cielo attraverso il tetto. La Sukkà deve avere almeno tre pareti, che
possono essere fatte con qualsiasi materiale (anche in muratura). Durante la
festa, la Sukkà dovrebbe divenire la residenza fissa fino al giorno di
Hosha’ anà
Rabbà; compatibilmente con il clima italiano, ciò significa che bisogna
almeno consumarvi i pasti. E’ mizvà mangiare pane in sukkà la sera del primo e
del secondo giorno. Si dice la benedizione Lishev Basukkà
(sedersi nella capanna), solo quando si mangia pane o almeno 240g di dolci
fatti con farina. Se piove in abbondanza non si ha l’obbligo di risiedere nella
Sukkà.
La seconda
caratteristica della festa è il mazzo di quattro specie che è composto da un
ramo di palma (lulav) due di
salice (‘aravà), tre di mirto
(hadas) e un cedro (etrog):
nei giorni di Sukkot, si prende il Lulav con la destra e il
cedro con la sinistra, li si agita ai quattro punti cardinali, in alto e in
basso, dopo aver detto la relativa benedizione.
Giorni
di Chol Ha Mo’ed – In questi giorni non si mettono i Tefillin
(italiani e sefarditi). E’ opportuno diversificare questi giorni da quelli
feriali limitando per quanto possibile le proprie attività. E’ comunque
permessa qualsiasi attività il cui rinvio potrebbe procurare dei danni. Di
Chol Ha Mo’ed si recita Musaf.
Hoshà
anà Rabbà – Il settimo giorno di Sukkot è Hoshà anà Rabbà:
in questa giornata si fanno sette giri intorno alla Tevà con il lulav e si
recitano delle particolari preghiere durante le quali si usa agitare dei
rametti di salice (‘aravà) che alla fine della preghiera vengono
battuti per terra: si usa conservare ciò che rimane di questi rami fino alla vigilia di Pesach per bruciarvi il
chametz.
Shminì
Atzeret – Si mangia in Sukkà senza dire la relativa
benedizione. Si dice Shehechejànu durante il kiddush. A Musaf
si inizia a dire Mashiv harùach umorid ha-Gheshem (“che fa soffiare il
vento e fa cadere la pioggia”). La sera dopo non si mangia in Sukkà.
Simchat
Torah – La “gioia della Torah”, giorno in cui il Chatan Torah
viene chiamato alla lettura dell’ultimo brano della Torah. Sefarditi e
ashkenaziti iniziano anche il nuovo ciclo di lettura della Torah. Gli
italiani leggono l’inizio della parashà di Bereshit da un libro
stampato. Si fanno le Hakkafot – i sette giri con i sefarim –
intorno alla Tevà.
Sukkot, la Festa delle Capanne, si può dire la festa ebraica della Calabria, dal momento che per la raccolta del cedro (il frutto indispensabile per il lulav, l'insieme dei quattro frutti che vengono agitati nelle sei direzioni dello spazio, in un rito che si ripete tutti i giorni della festa, che dura otto giorni, escluso lo Shabbat), rabbini di tutto il mondo vengono a raccoglierli nella nostra Costa dei cedri, dove si trovano i più belli di questi frutti, i più adatti ad una celebrazione della festa secondo gli alti livelli di perfezione che vengono richiesti.
Sukkot, la Festa delle Capanne, si può dire la festa ebraica della Calabria, dal momento che per la raccolta del cedro (il frutto indispensabile per il lulav, l'insieme dei quattro frutti che vengono agitati nelle sei direzioni dello spazio, in un rito che si ripete tutti i giorni della festa, che dura otto giorni, escluso lo Shabbat), rabbini di tutto il mondo vengono a raccoglierli nella nostra Costa dei cedri, dove si trovano i più belli di questi frutti, i più adatti ad una celebrazione della festa secondo gli alti livelli di perfezione che vengono richiesti.
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Da Torah.it
♫ Succot, festa dell’Umanità, audio, rav
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Succot, l’allegria, l’acqua, l’amore. Jonathan Pacifici
Le visite in Succà, Jonathan Pacifici
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Quando la Succà non “quadra”, Gabriele Si Segni
Le donne e le mizvot di Succot, rav Gianfranco Di Segni
♫ Shachrit di Succot, audio, Jonathan
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♫ Parashà del primo e secondo giorno, audio,
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♫ Secondo Sefer di Succot, audio, Jonathan
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Succot e Lulavim a Yerushalaim, album foto
Succot, Gerusalemme
in una capanna, video di Claudio Pagliara
newletter della Comunità ebraica di Napoli,
un testo del 16 ottobre 2008,
ma sempre attuale
Sukkot e l’ospitalità
di Pierpaolo Pinhas Punturello
Maimonide ha
ammonito che chi siede e mangia comodamente con la sua famiglia all'interno
delle proprie mura e non condivide con i poveri l'esecuzione di un qualsiasi
pranzo di mitzvà, di fatto non vive la mitzvà del pranzo festivo con gioia
bensì in nome del suo solo stomaco. Ospitare nel mondo ebraico non vuol dire semplicemente
esprimere convivialità e cortesia verso gli altri, ma adempiere ad un vero e
proprio comandamento seguendo l’esempio di Avraham nostro padre, ma anche di
Itrò suocero di Moshè.
Secondo una
tradizione kabbalista del 16° secolo, sulla base di fonti precedenti contenute
nel testo mistico dello Zohar, Il Libro dello Splendore, attribuito in
ultima composizione al maestro Moshè de Leòn (1250-1305), per ogni notte di
Sukkot riceviamo la visita di uno dei sette grandi uomini dell’antico Israele
che entrano nelle nostre sukkòt,
capanne, ovunque esse si trovino. " Quando un uomo si siede all'ombra
della fede in sukkah, la Shekhinah [Divina Presenza] diffonde le sue ali su di
lui e Abramo e altri cinque giusti al cospetto di D.o (e David con loro) fanno
la loro dimora con lui… Un uomo dovrebbe gioire ogni giorno del festival con
questi ospiti”. L'ispirazione ebraica rispetto al dovere di ospitalità risale
appunto ad Avraham ed è per questo motivo che lui è il primo ospite d'onore.
Avraham aveva infatti l’abitudine di sedersi al di fuori della propria tenda in
attesa di cogliere l'opportunità di invitare i viandanti all'ombra della
stessa, mentre lui in persona preparava per loro un pasto con i migliori
prodotti disponibili.
Un midrash, racconto omiletico, sostiene in
qualche modo che la prima tenda, su cui si basa l’esistenza del precetto di
risiedere in una capanna durante Sukkot, sia stata costruita da Avraham, quando
ha ospitato i tre Angeli che erano venuti ad annunciare a Sara, sua moglie, la
futura nascita di Itzhak (Genesi 18,1-10). L’idea della presenza di questi
ospiti, ushpizin in aramaico, è stata
poi codificata attraverso un testo di benvenuto, oggi contenuto in tutti i
libri di preghiere legati alla festa di Sukkòt, secondo una formula che
suonerebbe come un invito a cena, per così dire: "Invito a cena il mio
eccelso ospite, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè, Aronne,e David...”.
In molte
comunità sefardite si usa collocare sotto la sukkà una speciale sedia sulla
quale si posano libri liturgici per l'ushpizin ed in tempi più recenti è
diventato popolare in alcuni ambienti “invitare” anche le matriarche e altri
importanti donne di Israele quali Sara, Rachele, Rebecca, Lia Miriam, Avigail
ed Ester. La presenza degli ushipizin richiama fortemente il nostro dovere
verso i poveri, poiché la tradizione afferma che gli ushipizin stessi rifiutano
di entrare in un sukkah dove i poveri non sono i benvenuti, ma allo st esso
tempo fa riflettere molto su quanto in troppi ambienti ebraici si sia persa la capacità
e la volontà di ospitare.
Non ospitiamo
perché non abbiamo case kasher adatte ad ogni tipo di ospite, non ospitiamo perché
non sapremmo comportarci nei confronti delle diversità di approcci religiosi
che potremo incontrare nel nostro cammino o semplicemente non ospitiamo perché
non abbiamo ritmi ebraici nelle nostre vite e quindi non abbiamo più occasioni
di incontro con altri ebrei. Sukkòt può essere vissuto anche come un nuovo
inizio per una identità ebraica forte e consapevole di sé che non teme il
confronto e l’ospitalità, proprio come una Sukkà che è costruita all’esterno
delle nostre case, in pubblico e senza alcun problema identitario, senza timore
alcuno, senza complessi di ebraicità da nascondere.
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