Calabria judaica - Sud ebraico

Calabria judaica ~ Sud ebraico
Storia, cultura e attualità ebraiche in Calabria
con uno sguardo al futuro e a tutto il Meridione

Secondo una leggenda, che attesta l'antica frequentazione orientale della nostra regione, Reggio fu fondata da Aschenez, pronipote di Noé.
La sinagoga del IV secolo, ricca di mosaici, di Bova Marina, è la più antica in Occidente dopo quella di Ostia Antica; a Reggio fu stampata la prima opera in ebraico con indicazione di data, il commento di Rashì alla Torah; Chayim Vital haQalavrezì, il calabrese, fu grande studioso di kabbalah, noto anche con l'acronimo Rachu.
Nel Medioevo moltissimi furono gli ebrei che si stabilirono in Calabria, aumentando fino alla cacciata all'inizio del XVI secolo; tornarono per pochi anni, richiamati dagli abitanti oppressi dai banchieri cristiani, ma furono definitivamente cacciati nel 1541, evento che non fu estraneo alla decadenza economica della Calabria, in particolare nel settore legato alla lavorazione della seta.
Dopo l’espulsione definitiva, gli ebrei (ufficialmente) sparirono, e tornarono temporaneamente nella triste circostanza dell’internamento a Ferramonti; oggi non vi sono che isolate presenze, ma d'estate la Riviera dei Cedri si riempie di rabbini che vengono a raccogliere i frutti per la celebrazione di Sukkot (la festa delle Capanne).
Questo blog è dedito in primo luogo allo studio della storia e della cultura ebraica in Calabria; a
ttraverso questo studio vuole concorrere, nei suoi limiti, alla rinascita dell'ebraismo calabrese; solidale con l'unica democrazia del Medio Oriente si propone come ponte di conoscenza e amicizia tra la nostra terra e Israele.

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venerdì 7 ottobre 2016

Vayelech 5777 - Shabbat Shuva





שבת שלום!
SHABBAT SHALOM!

Shabbat Shuvah

Shabbat 6 Tishri 5777 (8 ottobre 2016)

Parashat Vayelech: Devarim (Deuteronomio) 31,1-30
Haftarah: Osea 14,2-10; Michea 7,18-20


Torna al Signore tuo Dio,
popolo d'Israele!

Molti giovani non si fermano semplicemente a raccogliere una sfida che riguardi una teoria o una filosofia profonda, ma vogliono pure conoscerne l’applicazione pratica e non come esperienza occasionale, ma quotidiana
Se si accetta che la Torà è stata data da D-o non si può dire, allora, che “i tempi sono cambiati” e che la Torà non può venire applicata nella sua forma originaria
Poiché Vayelech viene letta quasi sempre con Nizzavim, molti commenti su quest’ultima si riferiscono anche ai contenuti di Vayelech


Un commento alla Parasha settimanale Vaielech & Yom Kipur,
di Rav Pinchas Punturello, emissario di Shavei Israel in Italia


Shabbat Shuvà
[Riferimenti alla parashah Haazinu]
Lo shabbàt fra Rosh Hashanàe Kippùr: si chiama Shabbàt Teshuvà, ovvero lo Shabbàt del Pentimento.
La ragione di tale denominazione è molto semplice: questo shabbàt cade nei Dieci Giorni di Penitenza. Tuttavia, poiché ogni aspetto della Torà è estremamente preciso, bisogna intendere che il nome Shabbàt Teshuvà vuole indicare che lo shabbàt intensifica il pentimento e quindi la teshuvà di questo sabato è superiore a quella degli altri Dieci Giorni di Penitenza.
Qual è la connessione fra lo shabbàt e una forma superiore di teshuvà?
L’Alter Rebbe spiega che la teshuvà di questi giorni coinvolge l’essenza dell’anima, mentre quella che si fa durante il resto dell’anno ne coinvolge solo i poteri interni. Perciò, la prima forma di teshuvà è di gran lunga superiore alla seconda.
I due tempi della teshuvà corrispondono inoltre ai due livelli generali di pentimento: il livello inferiore, il cui scopo è di rettificare i peccati, e il livello superiore in cui l’anima ritorna e aderisce alla sua Fonte.
In generale, le due forme di teshuvà si rispecchiano nella differenza fra servizio spirituale durante la settimana e servizio spirituale dello shabbàt: durante la settimana l’uomo è impegnato dagli affari terreni e cerca di elevare la sfera fisica verso la santità. Questo sforzo corrisponde al livello inferiore di pentimento, in cui il compito è di congiungere i poteri interni dell’anima con la Divinità.
Di shabbàt, tuttavia, il lavoro è proibito per cui la sacralità del giorno è tale che l’uomo trascende la fisicità; il suo compito in questo giorno comporta il raggiungimento di livelli sempre più elevati di santità.
Perciò la teshuvà dello shabbàt corrisponde al livello più alto di teshuvà, attraverso cui l’anima s’innalza e aderisce alla sua Fonte.
La superiorità relativa alla teshuvà di Shabbàt Teshuvà rispetto al pentimento che avviene durante gli altri Dieci Giorni di Penitenza deve essere intesa di conseguenza.
I sette giorni compresi fra Rosh Hashanà e Kippùr corrispondono ai sette giorni della settimana di tutto l’anno passato; ognuno di questi rettifica le cattive azioni commesse nel giorno della settimana corrispondente dell’anno passato, per cui la domenica rettificherà quelle di tutte le domeniche, il lunedì quelle di tutti i lunedì e così via.
Quindi, anche se l’intero periodo dei Dieci Giorni di Penitenza implica una forma superiore di teshuvà, dal momento in cui i giorni della settimana ivi compresi hanno la prerogativa di riparare ciò che è stato fatto nei giorni corrispettivi dell’anno passato ne consegue che la teshuvà della settimana non è la forma più elevata di teshuvà.
Di Shabbàt invece, avviene la teshuvà per gli shabbatòt passati che sono già intrinsecamente superiori sia rispetto al servizio spirituale sia alla teshuvà. Lateshuvà di Shabbàt Teshuvà raggiunge il livello più alto di tutti i Dieci Giorni di Penitenza. È questo livello che mette ogni ebreo nelle condizioni di essere come Moshé: vicino al cielo e distante dalla terra.

SHABBAT TESHUVA’ Di Rav Alberto Sermoneta
“Va jelekh Moshè – e andò Mosè e disse tutte queste cose ai figli di Israel”
La prima domanda che si pongono i Maestri del midrash è: “dove andò Mosè?” In effetti non troviamo scritto nulla riguardo il luogo dove si diresse.
Secondo un midrash, Mosè sapendo che i suoi giorni stavano per completarsi, si recò da ognuno dei componenti del popolo ebraico a salutarli, uno ad uno ed a chiedere perdono per le offese (eventuali) che aveva arrecato loro.
E’ molto bella questa spiegazione ed anche molto commovente, se pensiamo che un uomo della grandezza di Mosè, il quale aveva parlato con D-o “faccia a faccia” ed aveva saputo mettere a repentaglio la propria vita, per salvare quella del popolo, abbia potuto fare un gesto così terreno. Eppure questa è la grandezza degli uomini: avere la forza di chiedere scusa a chi si è arrecato offesa.
Molte volte sentiamo dire da grandi personaggi che hanno la presunzione di dire: “Non ho niente di che scusarmi con nessuno!”. Eppure Mosè che è considerato fra i più grandi uomini della storia, lo ha fatto.
Questo shabbat prende il nome dalla Haftarà che leggeremo in esso, che inizia con le parole “Shuva Israel – torna Israel” ed è per questo motivo che viene chiamato “shabbat shuva” o “shabbat teshuvà”. Il significato è il medesimo, ma trovandosi fra Rosh ha shanà e Jom Kippur, si esorta ancora una volta l’ebreo a pensare al suo comportamento sbagliato e a pentirsi, chiedendo perdono al prossimo.
La teshuvà è la cosa più grande che un ebreo possa fare; i Rabbini sostengono che tanto più è grande la colpa, tanto più, nel momento della teshuvà il merito sarà grande per coloro che la fanno.
Tornando al senso della Haftarà, essa continua dicendo: “’ad A’ Elohekha – fino al Signore Iddio tuo”; la teshuvà ha un potere talmente alto che ha la forza di far arrivare direttamente al Signore. Nelle tefillot di Rosh ha shanà, in quelle di Kippur e anche in quelle di Hoshaanà rabbà, reciteremo un verso che dice:
“la teshuvà, la tefillà, la zedakà fanno cambiare il cattivo decreto” (divino su di noi).
Mosè attraverso la sua preghiera, durata quaranta giorni e quaranta notti sul Monte Sinai, fece sì che il disegno divino di distruggere totalmente il popolo ebraico che si era macchiato della grave colpa di idolatria, fosse annullato e il popolo salvato dalla distruzione totale.
La preghiera del Profeta Elia sul Monte Carmelo, portò alla salvezza del popolo, ritenuto ormai condannato a causa del suo comportamento da idolatra. E così in ogni occasione in cui c’è stata una completa teshuvà, arricchita dalla tefillà il decreto cattivo si è tramutato in buono.
Possa così avvenire con tutti noi anche quest’anno e portare selichà e kapparà in mezzo al nostro popolo.

Preparativi per una nuova realtà - Parashat Vaielech
Rav Eliahu Birnbaum
“E Moshé disse queste parole a tutto Israele: oggi ho cento e venti anni e non posso più uscire ed entrare. Inoltre Dio mi ha detto: “Tu non passerai il Giordano (…) Yehoshua mi sostituirà e continuerà a guidare il popolo…” In questo modo Moshé dà il suo addio al popolo di Israele a metà del cammino che aveva sognato e per il quale aveva loro insegnato a camminare. Moshé vive in questo momento una delle più grandi frustrazioni che può sperimentare un uomo, come il padre che prepara i suoi figli per la vita però è assente nel vedere i risultati dei loro sforzi.
Ogni situazione di rinuncia è traumatica per quanto sia stata attesa e programmata. La perdita di Moshé non giunge improvvisa ma è stata minuziosamente preparata in ogni dettaglio; ciò non attenua per il popolo la traumaticità e la difficoltà della situazione.
La condotta di Moshé nel momento in cui prende commiato dal popolo è esemplare. Moshé non intendeva pronunciare il suo addio da “pulpiti e balconi” né con grandi discorsi, bensì cercando una volta ancora il contatto personale con il popolo che aveva guidato. Non era il leader che ai nostri giorni sarebbe apparso nei comizi in epoca elettorale, per trasmettere ai posteri una immagine attraverso i flash ed i microfoni: per lui, il contatto quotidiano con la sua gente non era un mezzo carismatico per ottenere l’adesione delle moltitudini, ma un cammino sincero per comprendere ed occuparsi delle necessità del suo popolo.
Esiste una seconda lettura dell’attitudine di Moshé, la cui franchezza non nasconde il suo carattere genuinamente pessimista rispetto alla relazione tra governante e governato. Moshé si rivolge al suo popolo, probabilmente anche perché il suo popolo non si rivolge a lui. Moshé stava concludendo la sua funzione di dirigente e il popolo si preparava ad elaborare la sua relazione con il “nuovo governo” che avrebbe assunto la responsabilità di guidarlo.
A nulla valevano, in questo frangente, i quaranta anni di storia che erano trascorsi: essi avrebbero avuto un loro valore, in tutta la loro grandezza, molto più avanti.
Anche nella società dei nostri giorni accade qualcosa di simile, giustamente o ingiustamente, per molti dirigenti quando giungono al termine della loro missione. A volte sono essi stessi che si ritirano, in altre occasioni è la stessa società che li consacra o li dimentica, modi entrambi per prendere le distanze da loro e dalla loro realtà.
Questo è il caso, nello Stato di Israele, di Ben Gurion, di Menachem Begin, che si ritirarono a vita privata una volta compiuta la loro funzione pubblica o quello di Aba Eban, nei cui confronti l’opinione pubblica, a un certo momento ritirò la fiducia. Dovremmo chiederci la ragione di tali fenomeni formalmente identici dai tempi di Moshe fino ai nostri giorni.
Perde valore il messaggio di un leader quando questo abbandona l’orbita del potere? O non sarà che la società orienta le sue relazioni in base alla convenienza della congiuntura e tanto l’oblio quanto la “totemizzazione” di un leader, permettono di gestire la nuova realtà senza la sua interferenza?


Rav Riccardo Pacifici - Discorsi sulla Torà
Breve Parashà quella di oggi, come oramai le rimanenti di questo ultimo libro della Torà, brevi Parashoth, perché oramai, come abbiamo accennato, Mosè ha esaurito il suo insegnamento, ha ultimato i suoi solenni discorsi ammonitori ed egli si prepara oramai a quell'ora che diviene sempre più imminente e che sarà l'ora del suo estremo distacco da questa terra. Prima che questo distacco sia un fatto compiuto, Mosè compie alcuni atti che sono destinati in certo modo a continuare parzialmente la sua opera anche dopo la sua scomparsa. Il primo di questi atti è la solenne consegna fatta al suo successore Giosuè già precedentemente designato ad essere la guida del popolo nella conquista della terra. Giosuè deve sapere che egli d'ora in ora diventerà il capo di questo popolo e dovrà condurlo alla conquista della terra di Canaan. Giosuè non deve sgomentarsi dinnanzi a questo compito; le prove sono lì a dimostrare che Iddio protegge il popolo. Già i re della terra al di là del Giordano sono stati vinti, altrettanto accadrà per quelli che sono al di qua del Giordano. Giosuè deve essere quindi sicuro della propria missione, per trasmettere a sua volta questa sicurezza al popolo: Sii forte e saldo!... Sappi che il Signore procede innanzi a te, Lui ti accompagnerà non ti lascerà e non ti abbandonerà, non temere, dunque, e non paventare! (Deut., XXXI, 7 e seg.).
Assicurata così al popolo la guida nella persona del giovane e sapiente condottiero, Mosè compie un secondo atto, per certi aspetti molto più importante del primo: egli procede alla scritturazione di tutta la Torà, di quella Torà che da lui prenderà il nome. Finita la trascrizione egli consegna solennemente ai Leviti ed agli anziani la copia di questa Torà, e raccomanda che sia posta a fianco dell'Arca, vicino alle Tavole del patto, perché sia una perpetua testimonianza di quell'alleanza con Dio che il popolo purtroppo potrà facilmente dimenticare; raccomanda inoltre che ogni sette anni in occasione dell'anno sabbatico, in una solenne convocazione di popolo, simile forse a quella tenuta poco fa da Mosè stesso, sia fatta una pubblica lettura della Torà, affinché il popolo da questa solenne radunanza impari a conoscere e a ricordare il suo Dio e tutti i divini comandi.

Sublime esempio, questo del grande profeta, il quale si preoccupa che anche dopo la sua scomparsa, il popolo che pure tanta ingratitudine gli ha dimostrata, abbia ancora un'eco del suo divino insegnamento e fatto sapiente dalla vita e dalla storia, cerchi di attuarlo sempre più perfettamente. Sublime esempio, dicevo, di questo principe della Torà che tutta la sua vita ha dato al sublime scopo di elevazione del popolo, ma che nulla ha ricevuto in premio. Neppure quello che sarebbe apparso il più naturale e il più giustificato: l'ingresso in quella terra che era stato il sogno e il sospiro di tutta la sua vita. Sublime esempio di dedizione e di supremo idealismo. Mosè ormai non vive per una ricompensa terrena, Mosè ormai è sulla terra ancora, ma il suo spirito è già nell'alto dei cieli, Mosè vuole e aspira che la Torà di Dio, che il supremo insegnamento viva e continui dopo di lui e oltre lui, viva e sia perenne testimonianza di quella verità che egli ha proclamata e che egli spera possa diventare ragione di vita eterna, modello di santità per quel popolo cui fu destinata.



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